giovedì 1 gennaio 2015

Fiducia nel processo

Liberi appunti dal libro "La cura di sé nella relazione d'aiuto", Tullio Carere-Comes
(quarta ed ultima parte)




La spiritualità ci aiuta a crescere, può essere anche laica, cioè fondata sull'esperienza personale, il dialogo, la riflessione, la meditazione, lo studio: cioè sulle competenze comuni a ogni essere umano che voglia utilizzarle o coltivarle.
E' l'esperienza accessibile a chiunque del punto in cui non sono più io a respirare ma è il respiro stesso che respira in me.

La vita è intrinsecamente segnata dalla mancanza. La vita è lotta, osserva Eraclito. Vivere richiede coraggio: il coraggio di esistere. La relazione d'aiuto incoraggia il cliente scoraggiato (che si manifesta nella fuga illusoria del conflitto o nella rinuncia depressiva), perché trovi la forza di accettare la sfida continua del non essere, della mancanza.
Coraggio significa affermazione della vita nonostante la paura e l'ansia, non significa cancellare o negare la paura. Non potremmo vivere senza una combinazione bilanciata di coraggio e di paura.
Il coraggio autentico è affermazione nonostante. E questo è possibile grazie all'affidamento a qualcosa di più grande.
Vivere sul piano fenomenico, obbliga a fare i conti con il non essere, che minaccia continuamente l'essere dell'ente e della forma. 
Ma proprio questa sfida del non essere apre l'accesso ad un livello più profondo, il livello dell'essere senza forma, a cui occorre accedere per un superamento radicale della paura e dell'ansia, vale a dire per vivere con coraggio sul piano della forma senza rimanerne intrappolati. E' essenziale la ricerca di uno spazio interiore libero dalla paura. In questo spazio possiamo affrontare tutte le paure che inevitabilmente accompagnano la nostra vita... che perciò vengono ridimensionate, cioè ricondotte alla loro funzione di segnale.
La paura nella sua funzione originale è molto utile, ha la funzione fisiologica di anticipare il pericolo e permetterci di andargli incontro nel modo migliore, rispondendo in maniera calma e consapevole alle circostanze.
Ma per ridimensionare la paura è necessario un ancoraggio sufficiente all'essere senza forma.

Il coraggio di essere... nonostante, si collega perciò alla fede nell'essere (fede nella giustizia, nonostante l'ingiustizia, nella verità nonostante la falsità, nella vita nonostante tutto ciò che la nega, in quella vita eterna qui ed ora di cui l'essere vivente che nasce e muore è solo una manifestazione temporanea sul piano della forma). E' il coraggio della fiducia.
E' un rapporto capace di ricostruirsi sempre dopo le assenze, le separazioni, le inevitabili crisi. E' l'esperienza prolungata di un rapporto interpersonale capace di rigenerarsi più e più volte dopo le delusioni e le crisi, che è la base la cui importanza non può essere sottovalutata per lo sviluppo dell'esperienza transpersonale e spirituale.

L'esperienza di unione e separazione del bambino coi genitori fornisce il modello per la relazione con la vita. Si tratta dell'etica del finito della filosofia occidentale sin dai presocratici: "uomo conosci te stesso come mortale, e rinuncia alle fantasie di immortalità e infinitezza". Ma dopo aver ri-conosciuto la finitezza in te (e quella delle persone reali, dei propri genitori come primi modelli...), scopri in te il potere di superare i confini del tuo essere mortale, scopri in te quel nucleo di vita immortale che ti rende simile al dio. Questo è il bisogno irriducibile di infinito. Queste due dimensioni si equilibrano l'un l'altra, l'una non può stare senza l'altra, per l'affermazione di sé, il coraggio di essere, nonostante.

Ma dove si può trovare la forza per questa affermazione di sé, nonostante?
Nella matrice dell'essere. L'io potrà unire le proprie forze a un potere che non è suo, ma che in qualche modo lo sta chiamando. E in quale modo lo chiama? Nel modo del non essere, della mancanza.

Anche Gesù nel sermone della montagna (riportato nel Vangelo secondo Matteo 5-1,12) lo spiega: "Beati quelli che soffrono". La sofferenza come via d'accesso all'essere, certamente non l'unica, ma privilegiata.
E anche Buddha fa cominciare il cammino per la libertà dalla prima nobile verità: "La vita è sofferenza". E così anche nell'induismo: la vita è maya, illusione, e c'è un momento in cui il velo di maya si strappa, e compare il disincanto: il non essere, la mancanza... la delusione, il tradimento, il fallimento.

La sofferenza, dunque, è la porta.

Quindi che farci con questa sofferenza?
1- non accetto questa delusione. Quindi me ne vado, abbandono il campo alla ricerca di una nuova relazione... oppure no, credo che sarò sempre deluso e quindi resto chiuso nella mia delusione.
2- ho capito che prima o poi la delusione arriva inevitabilmente. Non posso proteggermi dalla sofferenza, ma la vita non può essere tutta qui. Come ne esco?
Ne esco on un altro tipo di ricerca. Non cerco più la relazione che non mi deluda. Cerco invece la relazione capace di contenere ed elaborare la delusione.
La scelta è radicale: non scelgo più di rammendare il velo di maya. Esco dalla foltissima schiera dei rammendatori. Abbandono il sogno, entro nella realtà. La realtà della delusione, La delusione è la porta d'entrata nella realtà, il varco nel velo di maya che conduce alla realtà dell'essere.

Ma cosa può convincere una persona a fare questo sforzo?
Ad accettare, ed affidarsi al vuoto, al non avere, non sapere, non controllare?

Risposte:
- possiamo accogliere la mancanza nel momento in cui comprendiamo che è ineludibile. Il non essere accompagna l'essere come un'ombra. La realtà delle cose è che tutto ciò che ho potrebbe venir meno in qualsiasi momento, e tutto ciò che desidero potrebbe non realizzarsi mai. Se capisco che la realtà è ineludibile, smetto di eluderla, l'accetto e l'affronto.
- ma non basta questo, bisogna anche sospendere il giudizio di ingiustizia o insensatezza che la rende comunque accettabile. Chi sono io per decretare ciò che è giusto o insensato? Io non so nulla di certo. E siccome non so, indago.
E la mia indagine parte dal "non sapere", ed è sostenuta dalla fiducia che la mia indagine possa scoprire, entro i limiti della capacità umana, il senso delle cose.

E qui torniamo al monito delfico "conosci te stesso", l'avventura della conoscenza di sé è un impresa sensata. E' la fede che c'è una logica nelle cose, un logos che governa l'universo, o una volontà divina. Ognuno lo intenda come vuole.
Questa fede sostiene le domanda: che senso ha l'esperienza dolorosa di mancanza che mi colpisce? Se capisco che è ineludibile, decido che deve avere un senso per me.
E' la fiducia nella vita. E' una scommessa. Non possiamo essere sicuri di vincerla, ma se non l'accettiamo, abbiamo già perso in partenza. E' la fede del ricercatore.

Quindi più concretamente...
Che senso ha questa angoscia? cosa mi vuole dire?

1- L'angoscia segnala un pericolo, un errore, un rapporto con la realtà inadeguato che nei limiti del possibile dobbiamo riparare.
Se sentiamo di aver fatto tutto il possibile allora dobbiamo arrenderci, è quella resa autentica che è liberatoria, perchè ci permette di attingere al nostro potere interiore.
2- L'angoscia ci segnala che solo un atto di affidamento apre la strada che conduce a noi stessi.
Ma questa apertura è ostacolata dalla resistenza ad affidarsi, ad aver fiducia nel processo nel momento in cui l'essere si fa annunciare dalla sua ombra, il non essere. Questa resistenza si esprime come rifiuto rabbioso o variamente giustificato, o come tentativo di riempire il vuoto in mille modi.

Quindi...
l'accesso al potere per il tramite dell'angoscia richiede la comprensione della sua ineludibilità, la decisione di indagarne il senso e la lotta alla resistenza ad affidarsi.
L'angoscia è un segnale da interpretare che quindi non va spento, ma dobbiamo imparare a leggerlo e decifrarlo, se vogliamo che il nostro viaggio abbia un senso, cioè proceda nella direzione della nostra crescita e realizzazione personale.

Infine...
La chiave della soluzione radicale sta nella domanda che i maestri ci rivolgono instancabilmente: chi è colui che prova angoscia?
Un maestro ripete sempre: ringrazia il cielo che ti manda queste esperienze che ti sembrano disgrazie, ma in realtà sono occasioni per riflettere su chi sei tu davvero,di cercare quella pace che non è scalfita da perdite o minacce.

L'angoscia è il sentimento che più di tutti ci segnala la nostra finitezza, e quindi ci indica la necessità di prendere atto dei nostri confini: per imparare a rispettarli prima di tutto, e poi per guardare a ciò che sta oltre.




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