giovedì 11 dicembre 2014

Conosci te stesso (prima parte)

La cura di sè nella relazione d'aiuto.. appunti dal libro di Tullio Carere-Comes


Partiamo dall'oracolo delfico: conosci te stesso... e cura te stesso grazie a questa conoscenza.
La cura di sé è perciò conoscenza e trasformazione di sé e questo messaggio è presente in molta parte della filosofia d'occidente e d'oriente. 

La cura di sé  e dell'altro è un diritto/dovere di tutti (Hidegger) e Carl Rogers l'ha definita così: aiutare se stessi o le altre persone nell'attingere alle proprie risorse per prendersi cura di se stesse.
Questo può significare "perdere il sé " e cioè rinunciare a se stessi (così come indicano anche molte dottrine buddhiste e anche cristiane), ma per raggiungere il vero sé . Può sembrare una contraddizione, ma dobbiamo liberarci delle identificazioni non funzionali per noi, per riscoprire chi siamo veramente, il nostro vero  appunto. Ma per farlo dobbiamo prima conoscerci e conoscere il nostro  per poi poter trascendere da lui, trovando un centro più autentico. Le filosofie orientali, poi lo orientano verso la spiritualità.
E' interessante e rassicurante trovare le radici di questi discorsi in diverse culture e tradizioni filosofiche e spirituali, ci dà la conferma che siamo sulla strada giusta.
Ma qual'è la strada giusta? Sembrerebbe essere la via di mezzo, e cioè quella che ha sperimentato gli estremi ma che poi trova il suo giusto equilibrio tra essi.
Ne è un esempio è l'etica: la capacità di distinguere il bene dal male... ma come si fa?
Ci sono tre fasi nel cammino di sviluppo di questa capacità:
- il primo è chiamato "pre-convenzionale" ed è quello che corrisponde alla logica egocentrica del soggetto (ad esempio il bambino o l'uomo immaturo), che giudica dall'interno del proprio particolare, senza vedere più in là;
- il secondo è quello "convenzionale": se il soggetto guarda più in là allora vedrà che non c'è solo se stesso coi propri bisogni, ma anche una società, un'umanità che necessita di regole, di leggi e quindi di una morale che definisca le regole che debbono andare bene per tutti. Qui abbiamo fatto il passaggio dal particolare all'universale;
- il terzo è il "post-convenzionale", cioè quello della coscienza libera e responsabile che valuta in un contesto secondo codici dati. E qui c'è la possibilità anche di trasgredire la norma, perchè fatto con consapevolezza e responsabilità.
Perciò il  che raggiunge la consapevolezza è in grado di trovare la via di mezzo, la giusta misura in ogni cosa.
Con la cura di  iniziamo questo cammino verso la consapevolezza, così da favorire un processo di maturazione e formazione permanente.

La consapevolezza ci permette di vedere e conoscere la nostra identificazione con una tipologia di persona (il buono o il cattivo, il vincente o il perdente e così via). Se la conosciamo, possiamo via via pelarla strato per strato come una cipolla, per arrivare piano piano alla libertà da noi stessi; per arrivare al centro, quel luogo dove ci sentiamo a nostro agio, autentici, perfettamente silenziosi, calmi e vigili. Dove percepiamo una sensazione di grande pace e benessere, di essere finalmente noi stessi nel momento in cui siamo "nessuno": siamo liberi.
Questa sensazione si ottiene con l'esercizio della presenza a noi stessi, per esempio con le pratiche di meditazione o lo yoga.
"il centro d'oro" - bassorilievo su tela 20X20
Per fare questo cammino verso la consapevolezza ci vogliono delle mappe, che aiutino ad orientarsi nel sentiero della via di mezzo. Quella proposta qui è frutto di un lavoro scientifico, ma non si tratta della scienza empirica galileiana, quanto di quella fenomenologica o eidetica, la scienza delle essenze, che va a indagare i fattori essenziali delle cose, e in questo caso della cura di .
Questi fattori corrispondono ai bisogni fondamentali del sé e contemporaneamente dipendono dalla logica stessa della relazione di cura, che a sua volta dipende dall'essenza dell'uomo e di ciò di cui ha bisogno per essere pienamente se stesso.
Ha scritto Eraclito:"Bisogna sapere che la guerra è presente in tutte le cose, che la giustizia è conflitto e che tutto accade necessariamente come frutto di una lotta". Ma il conflitto può essere costruttivo oppure distruttivo, possono derivarne nuove forme di vita oppure dissipazione di risorse.Ogni cosa accade come prodotto di conflitti e contraddizioni, all'interno di spazi definiti da una serie di polarità caratteristiche di ogni fenomeno vivente. Partiamo dalle polarità fondamentali della relazione di cura.

Il simbolo della croce ci aiuta a descriverle:
sull'asse orizzontale al vertice a sinistra abbiamo A = l'accoglimento incondizionato (pensiamo a quello materno) l'accettazione dell'altro per quello che è, con i suoi pregi e i suoi difetti ecc.
al vertice a destra abbiamo C = il confronto con la realtà (pensiamo al ruolo del padre come archetipo).
In poche parole: ti accetto per quello che sei, ti accolgo ma nel contempo ti metto di fronte alla realtà, una completa l'altro. Anche se può manifestarsi una dismisura per eccesso o per carenza  di protezione o di confronto.
Il punto di equilibrio fra queste due varia a seconda della fase di sviluppo della persona e dalle carenze o eccessi patiti in precedenza. La cura qui è utile in un'ottica riparativa rispetto a questi ultimi.

Sull'asse verticale al vertice in alto abbiamo K = knowledge, cioè la conoscenza: dare forma all'informe, dargli un nome, portare a consapevolezza ciò che è inconscio e così via per iniziare a rispondere al monito delfico "conosci te stesso".
In basso abbiamo O = openess, e cioè l'apertura all'essere inconoscibile; qui si parla di un'altro tipo di conoscenza, non concettuale, ma intuitiva ed esperienziale. Si tratta dell'apertura alla parte invisibile, all'infinito, al mondo di infinite possibilità da cui continuamente emergono le forme che esistono nel tempo. Occorre ritornare all'origine delle forme, per non restare imprigionati in forme particolari e irrigidite, per mantenere la capacità di trasformarle e innovarle. Occorre anche ritrovare l'intuizione dell'infinito per non restare chiusi nei confini finiti della nostra esistenza, e risvegliare il sentimento dell'eterno per liberarsi della sensazione angosciosa del tempo che fugge e dalla precarietà di ogni cosa.
Perciò la conoscenza è sempre parziale, la totalità è inconoscibile perchè infinita.
Ma anche O non può esistere senza K. Entrambe hanno bisogno l'una dell'altra, per rispondere insieme al monito delfico "conosci te stesso".
O ci aiuta a vedere le cose da una prospettiva più ampia, per vedere le molteplici vie di soluzione ad un problema, per sentire che ogni cosa ha il suo senso nell'infinito dell'essere che abbraccia tutti gli enti. Qui ci apriamo alla fiducia, alla fede.
C'è un movimento dialettico che collega queste due, per cui si parte da K per conoscere le forme, per poi passare a O e aprirci all'infinito delle possibilità e ritornare a K per costruire nuove forme.
Ovviamente anche qui ci può essere una dismisura che può essere tradotta come l'incapacità di trovare un equilibrio tra la sicurezza della "tana" o delle abitudini da un lato, e il rischio del cambiamento dall'altro.
Sull'asse orizzontale il cambiamento si esprime in termini di adattamento alla realtà e su quello verticali in termini di creazione continua di forme nuove, o di trasformazione delle forme esistenti.
La ricerca dell'equilibrio far questi quattro vertici ci avvicina al nostro "centro", ci aiuta ad essere più o meno centrati nella nostra identità (sé) e nel mondo in cui viviamo.

Come raggiungere la serenità interiore? Al di là della nebbia e delle difficoltà che necessariamente viviamo?
Ciò che non ci permette di distaccarci dai nostri pensieri, dolori, conflitti, fatiche... per volare sopra la nebbia e scorgere il cielo sereno, non è altro che la nostra innata paura di perdere tutto ciò a cui ci siamo identificati. E qui torniamo all'inizio: dobbiamo perdere noi stessi per ritrovarci.
Dobbiamo qui fare la differenza tra la paura-segnale, quella sana che ci indica una situazione da migliorare o qualcosa di pericoloso, da quella angosciosa legata al pensiero che non siamo niente se non quello che crediamo di essere. Ecco noi siamo quello ma siamo anche molto di più e anche molto di meno. Siamo mente e siamo corpo, siamo pensiero e siamo anima, e siamo anche leggerezza, un puntino in mezzo ad un mondo che ci sovrasta.
Dobbiamo far sì che la nostra testa (il capo) scenda umilmente dal suo posto elevato e ritorni al corpo, anche qui dobbiamo cerare la via di mezzo, che in questo caso si identifica con la zona mediana e perciò il respiro. Con la concentrazione del respiro molte pratiche di meditazione aiutano proprio a ritrovare il centro, la serenità.
Dobbiamo superare la paura del vuoto, capendo che quel vuoto ci è necessario, così come è necessario alla ruota del carro, quel vuoto che sta al centro e che dà senso all'intera struttura. Il vuoto della ruota è prezioso proprio perchè attorno ci sono i raggi che sono racchiusi dal cerchio.
La cultura dell'occidente è segnata dalla paura dell'oblio, dal bisogno ossessivo di riempire il vuoto (horror vacui), di dominare il mistero o di demistificarlo. 
Ma la soluzione anche qui sta nel mezzo: avere uno stile di vita aperto al confronto e al dialogo, mai chiuso in un sistema o stile definitivo. Essere aperti al cambiamento di mentalità, di idee, di possibilità, proprio perchè c'è un'infinito di possibilità fuori e dentro di noi.
La vita ha bisogno del vuoto, dell'ignoto per creare e ricreare continuamente le sue forme. non dobbiamo averne paura, è un vuoto generativo. Dobbiamo affinare la capacità di soggiornare in quello spazio vuoto, liberandolo da tutto ciò di cui è stato indebitamente riempito: sogni, illusioni, dogmi, ideologie, oggetti e concetti.

L'uomo è animale abitato dal logos, ci dice Aristotele. Il logos per i Greci è sia la parte divina dell'uomo (il vuoto centrale che apre all'infinito), sia il pensiero razionale (quello a contatto con il vuoto), sia il linguaggio (il logos che si fa carne, respiro, suono, parola)
E' quel vuoto centrale che fa dell'uomo un animale pensante e parlante.


Per concludere questa prima parte cito il libro che cita a sua volta la metafora dell'oculo del Pantheon: 

"Porto a casa da Roma un simbolo di questa prospettiva: vedere il mondo e noi stessi attraverso l'oculo del Pantheon - il terzo occhio - vuol dire da un lato liberare la visione da tutti i valori, i pregiudizi e i miti con cui l'abbiamo accecata, dall'altro aver cura di ciò che la sorregge e la nutre, un corpo che deve essere ben radicato a terra quanto la mente ha da essere lucida e rigorosa."

Questo modello della cura si sè è come un arco teso tra cielo e terra, tra visibile e invisibile, tra il finito e l'infinito, l'essere e la forma, il tempo e l'eterno.


... continua...


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