martedì 23 dicembre 2014

Responsabilità: un viaggio alla ricerca di noi stessi

liberi appunti dal libro "La cura di sè nella relazione d'aiuto" di Tullio Carere-Comes ... (seconda parte)

Illusione e consapevolezza...


La condizione del filosofo è intermedia tra il divino e l'umano e nella prospettiva filosofica la realizzazione personale è intesa come l'avvicinamento alla sofia, senza poterla però mai del tutto fare propria.. si tratta di "un tendere a".
Ne siamo più vicini tanto più riusciamo a vivere con pienezza il presente, indipendentemente dalle condizioni di privazione o precarietà in cui contingentemente ci troviamo. Ma questo avvicinamento è difficile perchè il pedaggio è salato.

Le nobili verità di Buddha:
uno- la vita è intrisa di sofferenza (ma anche di gioia)
due- la gioia è strettamente legata all'illusione della permanenza, e la sofferenza è prodotta proprio dal nostro attaccamento alle cose che abbiamo o che desideriamo avere
tre- è possibile affrancarsi da questo meccanismo e dalla sofferenza che produce
quattro- grazie a un cammino di liberazione che è un allenamento a fluire tra gli opposti, senza creare attaccamenti né da una parte né dall'altra

Ma come si fa?
Il segreto è l'accettazione interiore della realtà, cioè: il puro e semplice fatto che qualcosa è o accade in questo momento.
In questo modo si evita di sprecare energie nel lamento, nella protesta, nell'indignazione e infine nel rifiuto, che non ha certo l'effetto di cambiare la situazione, ma altera invece il nostro stato d'animo e quindi la nostra capacità di agire efficacemente sulla realtà per cambiare ciò che è possibile cambiare.
Accettando la realtà in maniera autentica si attinge a una dimensione di forza e di calma che permette di agire sulla realtà in modo efficace, per quanto possibile.

Un comportamento molto diffuso è quello di non prendersi le responsabilità del dolore che ci compete: per tutte le privazioni che il destino o la sfortuna ci hanno riservato, restiamo in una posizione di rancore e di un attesa di risarcimento, muovendoci nella vita con la pretesa malcelata di ottenere giustizia, o con azioni mirate e determinate ad ottenerla. Il risultato è che non solo non ci liberiamo dal dolore profondo, che non ci lascerà mai finchè resterà coperto da rabbia e rancore, ma lo trasferiamo sugli altri con un comportamento evacuativo piuttosto che elaborativo.
L'elaborazione deve iniziare dal riconoscimento dei modi in cui reagiamo (o resistiamo) al dolore invece di prendercene la responsabilità.

Cosa significa prendersene la responsabilità?
Significa innanzitutto sentirlo; liberarlo dalla logica della colpa; ed evitare di identificarsi col proprio dolore (tenendocelo stretto, perchè ci identifica, ci dà sicurezza e ci dà la possibilità di chiedere risarcimento).
Se facciamo questo, la domanda che ne scaturirà sarà inevitabile:
"chi sono io veramente?" (se non sono quel dolore)
Affrontare il dolore significa perciò porsi queste domande, e quindi prenderci la responsabilità della nostra vita e iniziare un viaggio alla ricerca di noi stessi. Questo viaggio richiede due cose, due importanti fattori di crescita: autodisciplina e relazioni adeguate, relazioni di cura (cioè l'alleanza fra due persone che mettono in gioco qualcosa di essenziale). La vita quotidiana è ricca di relazioni potenzialmente curative, ma spesso ci vuole un terapeuta, un counselor, una persona esperta della relazione d'aiuto, che può aiutare a valorizzare anche quest'ultime.

L'autodisciplina si compone di: cura dell'attenzione (per ancorarci al momento presente ed attingere al "potere dell'essere" Tillich), dell'intenzione (dire ciò che vogliamo  e formulare i nostri obiettivi che danno senso e direzione all'adesso) e della funzione simbolica (grazie a cui utilizziamo e costruiamo noi stessi i simboli che fungono da operatori di passaggio nella trasformazione tra l'essere e la forma, il visibile e l'invisibile, il finito e l'infinito, per la realizzazione degli obiettivi). Ci sono pratiche e strumenti utili a questo (scrittura, studio, attività creative, sportive ecc...), ma non bastano. 
L'autodisciplina non basta, ha bisogno della relazione: di una relazione dialogica in cui metterci realmente e profondamente in discussione.

L'esperienza della relazione e della solitudine sono complementari. Per una realizzazione umana piena sono necessarie entrambe. La solitudine in realtà è una forma di relazione con se stessi, con la vita, con l'universo. Naturalmente deve essere disciplinata, se no diventa sterile e dannosa.
Perciò per una vita sana sono necessarie solitudine disciplinata e relazione impegnativa, cioè che deve fondarsi sull'impegno delle persone a confrontarsi e mettersi in gioco fin dove è possibile.
Per fare questo è necessario avere fiducia nel processo e nella vita, nel logos, nell'universo... oppure per dirla in chiave religiosa, avere fede.

Anche perchè il dialogo non è mai perfettamente funzionante...dobbiamo fare esperienza del limite (il limite in cui un dialogo fa naufragio), restare nel limite rende l'esperienza trasformativa.
A due condizioni: la prima è che sia un'esperienza reale del limite (non di chi si ferma prima perchè è troppo faticoso e alle prime difficoltà si ferma in una zona comfort), non un'esperienza di comodo. L'esperienza di chi ha lottato con tutte le proprie forze, ed è arrivato al limite in cui le sue forze non bastano più e non resta che arrendersi. Ma bisogna lottare, fino in fondo.

Il dialogo si basa sulla sospensione delle aspettative: è un mettersi da parte perchè si apra uno spazio in cui il logos, la logica o la verità delle cose possa manifestarsi (è una modalità femminile).
La dialettica invece è conflitto tra due posizioni antitetiche, anche da qui può emergere una verità superiore alle due in conflitto (è una modalità maschile).
Queste due sono necessarie entrambe: relazione dialogica e dialettica, si fondono in una relazione di accoppiamento.
Ma se li abbiamo sperimentati realmente entrambi e la barriera che ci separa dall'altro è ancora insuperabile, allora bisogna arrendersi. 
La resa, quella vera, è l'accettazione della realtà così com'è, bella o brutta che sia: la vita pone condizioni che non di rado ci sembrano terribilmente ingiuste e inaccettabili.
Ma sono quello che sono.
Se dopo aver lottato ed essere arrivati al limite, continuiamo a desiderare che le cose cambino, che le persone migliorino e rispondano alle nostre aspettative, allora non accettiamo la realtà. Ma la realtà è quella. E il fatto di non accettarla non cambia le cose.
Semplicemente invece di accettarla la subiamo, e invece di essere protagonisti della nostra vita ci trasformiamo in vittime!

Invece se accetto che la realtà è questa, mi rilasso, la esamino bene e decido cosa farne. Posso tentare di modificarla, allontanarmi o rimanere lì, in presenza di questa realtà deludente e dolorosa. Ma per il momento l'esperienza della mancanza rimane, come qualcosa di incolmabile e irrimediabile. Se l'accetto senza riserve scopro che è un passaggio.
Un portale, una via d'accesso all'esperienza dell'essere (Tollith).
Da qui la necessità del distacco, se noi non siamo in grado di distaccarci dalle cose allora ci pensa il logos, la legge universale, la vita, la logica del processo, a spiazzarci e a metterci di fronte a quel vuoto che cerchiamo di evitare.

Dal momento che accettiamo la realtà così com'è e lasciamo che le cose siano quello che sono (non per situazione di comodo, ma perchè abbiamo già lottato, dialogato, applicato la dialettica e sostato nell'esperienza del limite), allora entriamo in una nuova e fondamentale dimensione esistenziale: la relazione ontologica o transpersonale: la relazione diretta con la realtà, cioè il fluire e il passare delle cose da una all'altra, come è normale che sia, come è la vita. E' allora che sento una dimensione di pace, e mi posso rilassare. Faccio parte anch'io del tutto che fluisce, che si modifica, che è impermanente e perciò posso non soffrire più. E' il senso di unità di tutte le cose, la coscienza che c'è un unico essere che fluisce ininterrottamente nelle diverse forme che nascono, si trasformano, tramontano...
La relazione ontologica è la cura radicale dell'angoscia. Solo un sufficiente radicamento nell'esperienza dell'essere o della vita permette di accettare la transitorietà di tutte le cose.
La relazione ontologica da un lato apre la dimensione dell'illimitato e dall'altro permette di vivere più serenamente la limitatezza costitutiva di ogni forma finita.

Le relazioni funzionano quando smettiamo di esigere che siano quelle che non sono.
Ma prima vanno sistemate per quanto possibile con le tre relazioni: dialogica, dialettica e di accoppiamento e questa è una cura necessaria, che siamo tenuti a fare(responsabilità).
Solo così possiamo dire di aver fatto davvero tutto il possibile, e quindi sentirci in pace nella relazione ontologica. In questo modo raggiungiamo la libertà dal mondo delle forme, cioè la capacità di fluire nella realtà in modo incondizionato.

La crescita equilibrata richiede lo sviluppo di entrambe le capacità: di essere in relazione con i propri simili, e di essere soli di fronte alla vita (autodisciplina).








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